logo
logo PTE

Num. 8 del 7 aprile 2006

Editoriale: Sì al Partito Popolare Europeo

Lo scontro aspro dell'ultima fase della campagna elettorale dipende anche dalla reale posta in gioco. Il pericolo non è rappresentato solo dalla vittoria della sinistra ma anche da maggioranze risicate o indefinite tali da lasciare spazio a contrattazioni talora palesi, spesso surrettizie, del tipo di quelle che si rivelarono deleterie già negli ultimi decenni della prima repubblica. Furono quelli anni nei quali prevaleva il regnare sul governare, le mediazioni infinite sul decidere e il cui risultato finale fu un aumento pauroso del debito pubblico, l'assenza di interventi essenziali quali quelli a favore della famiglia, e, infine, una crisi politica, ma, prima ancora, morale.
Si sta tenendo in questi giorni a Roma l'assise del Partito Popolare Europeo. Di fronte a riferimenti e schemi politici usurati che non offrono più risposte adeguate, non suscitano emozioni e non producono consensi, c'è bisogno di progetti nuovi che interpretino il presente col respiro del futuro.
Dinanzi ad una politica, ove spesso prevalgono particolarismi, personalismi e frazionismi, che stanca e allontana i cittadini c'è bisogno di leaders autorevoli, di morale vera, testimoniata e non proclamata, di competenze sicure, ma anche di grandi sintesi ideali e ricomposizioni operative.
Il Partito Popolare Europeo, attestato idealmente sui filoni del personalismo cristiano e dell'umanitarismo laico, potrebbe rappresentare una idea trainante, lanciata verso il futuro: sul piano interno di fronte alla costituzione di un partito unitario della sinistra, colorato a forti tinte radicali, potrebbe essere la risposta nuova per garantire un sistema dell'alternanza e dei controlli, oltreché per evitare, o almeno limitare, alleanze a geometria variabile magari colla logica dei "due forni" secondo la convenienza. Niente toglie che nelle emergenze politiche del paese possano attuarsi convergenze "bipartisan"sul modello tedesco, ma limitate alle emergenze e in termini di chiarezza alla luce del sole. Sul versante internazionale, nell'Europa della secolarizzazione e della ideologia del "politicamente corretto"è essenziale una presenza politica e ideale ispirata ai grandi filoni etici a partire dal pensiero classico e dalle radici ebraico/cristiane fino al pensiero liberale e riformista e alla dottrina sociale della Chiesa all'insegna dei valori della persona, della solidarietà e della sussidiarietà.
Il dibattito referendario sulla legge 40 ha dimostrato la possibilità di trovare elementi comuni sui quali costruire un' etica pubblica condivisa specie nel riferimento al primato della persona che può funzionare da raccordo tra cattolici e laici (v. posizioni di Pera e Ferrara) che hanno a cuore l'essere umano e che condividono l'idea kantiana dell'uomo sempre fine e mai mezzo.
Il Partito Popolare Europeo dei moderati può nascere e aprirsi immediatamente alle forze del centrodestra ma, in prospettiva, non escludendo neppure convergenze colla parte moderata del centrosinistra, quella che nel referendum ha accolto i contenuti dell'astensione.
Un'idea nuova deve legarsi ai problemi attuali. Ci sono oggi nel paese alcune grandi questioni prioritarie.
Il distacco dei cittadini dalla politica comincia ad essere preoccupante: è pericoloso che istituzioni e politica vengano considerate "cose loro", dei politici e non "cose proprie"dei cittadini. Un sistema di libertà vuole democrazia ed efficienza: la democrazia non può essere quella mitica, impossibile ma partecipazione e controllo popolare in forme realistiche sono indispensabili; non si tratta solo delle "preferenze, ma il legame eletti /territorio è essenziale e va recuperato. C'è anche, ad esempio, tutto il problema dei servizi pubblici locali (le utilities dell'acqua, rifiuti), amministrati, specie nelle regioni rosse, da un sottobosco politico spesso privo delle competenze per realtà tanto importanti sul piano sociale ed economico; c'è la spesa pubblica di comuni e regioni che ha fatto dire a Sabino Cassese che le Regioni invece di contribuire a risolvere i problemi dello Stato sono divenute esse stesse un problema.
La questione eterna dei rapporti tra politica ed economia non può essere ridotta strumentalmente al "conflitto di interessi"del Presidente del Consiglio. Gli "interessi"non sono soltanto quelli, peraltro palesi, contestati dagli avversari a Berlusconi; ci sono quelli, spesso surrettizi, dell'intreccio "potere rosso"negli enti locali, cooperative e banche e i poteri forti ad alto livello, strategici, descritti nei libri recenti di Gelminello Alvi (Una repubblica basata sulle rendite) e di Ludovico Testa (Guerra per banche) che attraversano trasversalmente banche, giornali nazionali, sinistra.
C'è l'emergenza "famiglia", in Italia e in Europa, che passa prima di tutto attraverso il riconoscimento della sua importanza e funzione che non può essere negata con l'avvicinamento o addirittura colla equiparazione giuridica alle altre forme di convivenza di fatto, anche omosessuali. Una politica della famiglia non è mai stata fatta in Italia; si coglie il "gap"italiano anche a occhio, solo guardando a Germania e Francia. Proprio a fronte della deriva nichilista e relativista sta maturando la coscienza dell'importanza della famiglia come nodo centrale dei problemi educativi ed economici. La crisi economica europea e i problemi dell'immigrazione hanno al centro il decremento demografico.
Il progetto per arrivare al Partito Popolare Europeo, come ogni grande costruzione, va pensato e attuato. Anche una " idea forte"può realizzarsi solo attraverso un percorso che passa tra inevitabili difficoltà e contrasti.
Perché il processo vada avanti e per assicurare un'evoluzione e non un'involuzione politica è ora necessario che ci sia un risultato elettorale positivo non per una, ma per tutte le componenti e per la Casa delle libertà nel suo complesso; in caso contrario, si aprirebbe per il paese una stagione difficile, d'instabilità e confusione.

Marcello Masotti

Articolo pubblicato su "IL GIORNALE DELLA TOSCANA" del 31 marzo 2006

L'intervento: Ho comperato il ‘ Kit ‘

Che Corrado Augias informi i suoi lettori (La Repubblica 10.3.2006) dell'acquisto di un kit per l'eutanasia non fa specie; siamo abituati a confessioni-sfida sul darsi la morte (non remoto l'intervento di Franco Debenedetti sul Riformista del 8.10.2005). Gli argomenti di Augias vogliono comunque un commento.
La loro sequenza è quella consueta. Dal trauma della "infamia di una morte [altrui] troppo a lungo rimandata", alla richiesta per se stesso di morire con "dignità". Dall'esortazione a non temere la morte (purché non "lenta"), all'istanza duplice (e consuntiva) "di restare padroni di sé, di congedarsi dalla vita senza doversi vergognare". Partiamo dall'ultima notazione. Ha ricordato Martha Nussbaum nel bel saggio Nascondere l'umanità che stigmatizzazione e vergogna, nel loro legame con imbarazzo e umiliazione, convergono.  Augias evidentemente pensa che la condizione di un malato devastato dal suo male porti in sé uno stigma. Quale? Certo, numerose culture hanno segnato la malattia come colpa. Ma non l'Occidente cristiano. Chi, anche solo "non potendo non dirsi cristiano", si china sulle piaghe altrui non intende rimuovere nell'altro la vergogna, ma si oppone a quel male e scruta nel soffrire, e nella deformazione patologica, l'altro per eccellenza e il mistero. Sempre. Anche il professionista ospedaliero più sperimentato e incallito.
In ogni malato può esservi vergogna per la propria dipendenza, per il  proprio aspetto, per il peso ch'egli fa gravare sugli altri. Ma questo  è  vero per ogni condizione carente e patologica, e sappiamo di dover contrastare tale autostigmatizzazione. O forniremo un kit per l'eutanasia ad ogni essere umano che si "vergognerà" della propria impotenza?
La padronanza di sé c'entra poi veramente? In realtà colui che non è padrone di sé non si "vergognerà" del proprio stato e non avrà ragione di darsi la morte, né potrebbe.  Il paradosso  è che a predisporre gli strumenti della propria morte deve essere chi è (ancora) padrone di sé,  per una fragile ragione: egli suppone che si vergognerà quando non lo sarà più. Ma o  si darà la morte quando è ancora padrone di sé senza ragione dunque o assegnerà questo compito ad un altro. E l'altro ucciderà in lui un uomo che non prova "vergogna" per ciò che ha.
E che c'entra la morte la morte "veloce e imprevista"?  Quella morte che molti si auspicano, Augias compreso, non esalta la padronanza di sé, semplicemente vi pone fine. Né potrò esibire alcuna padronanza di me dopo. Senza contare che alcune morti improvvise  (molti desiderano di essere colti nel sonno) non sono per definizione un morire "nella padronanza" di se stessi. Contro l'opinione di Augias  sta qui la vera paura della morte, nella speranza che morire della "morte meno attesa" ci impedirà di pensare alla morte e di prepararci a morire, come avviene quando la morte assume corpo e imminenza.
Ma non sono in gioco solo fallacie logiche. La condizione di prolungata sofferenza e di non padronanza di sé appare in Augias (e in ogni altra argomentazione simile) motivo di vergogna di e per quel sofferente, perché egli soffrirebbe "senza dignità". La dignità è associata così all'umanità integra, e quest'ultima non sarebbe altro che "il controllo di sé (…), la possibilità di comunicare con i nostri simili, quell'attività cerebrale anche minima (…)". Non so se Augias si renda conto di cosa afferma veramente. In sede civile egli certamente milita per la dignità e la vita di ogni essere umano non integro; eppure  dichiara  di non voler per sé la condizione senza dignità di un tale essere.
È in buona compagnia in questa contraddizione, ed è fatto sintomatico. La tutela pubblica dei carenti e dei sofferenti attraverso le leggi è, in effetti, una vernice che facilmente si scrosta quando ricopre esseri senza speranza o senza difesa; sotto il PC (il politicamente corretto, la sigla è di Eco) la vera concezione del patologico, quella conforme alla modernità pragmatista e sensista, è quella di una meno o non umanità. Non vorrei mai questo per me e mi premunisco, allora, di un kit da circa cento euro. Ma  finirò col non volerlo neppure per gli altri, e non perché la loro dignità mi preoccupi (altrimenti la garantirei in quel vivente e non la proietterei, invano, in lui non più vivo), ma perché gli altri irreversibilmente sofferenti anticipano empaticamente in me l’Infermità.  Le biopolitiche di tutela della salute sono infestate dalla buona morte. Ho scritto qualcosa 'sul far morire per limitare la nostra sofferenza' (attuale, di sani). Il titolo va integrato così: e sul preparare la nostra eutanasia per esorcizzare la paura; che, in profondità, è la paura dell'altro chino su di noi.
Curare la "vergogna" del malato con la sua morte è affidare la dignità alla “liquidità” di una condizione integra di rischiosa definizione. Non si dica che il kit sana l'irreparabile; nell'orizzonte senza criteri che si intravede dalle poche righe di Augias la soglia dell'irreparabile è alla nostra mercé. Il buon Samaritano viaggia qui sempre con il kit per l'eutanasia.  Questo ossimoro, caro a chi si pensa  "compassionevole",  è l'icona della distruzione dei fondamenti (cristiani) della dignità. Per fortuna dell'uomo, non è cosa che siamo disposti ad accettare che avvenga.

Pietro De Marco

Il presente articolo è stato pubblicato su:
http://www.stefanoborselli.elios.net/news/index.html